Questo governo ed in particolare Renzi e i suoi cortigiani, che in principio mi avevano fatto sperare in un cambiamento di rotta della politica italiana allo stato dei fatti di tutto ciò che è stato fatto non potevo che ricrerdermi. Il mio mio ravvedimento non è solo sulla fiducia ad un personaggio come Renzi che si è dimostrato solo un burrattino all mercè di quei poteri forti che hanno e avranno sempre la bacchetta della direzione dell’orchestra, anche a costo di fare tutto ciò che aveva sempre dichiarato di combattere. Affidare a queste persone la modifica delle regole della nostra convivenza e di gestione delle scelte future lo reputo deleterio e persino pericoloso, in rete si trova di tutto per farsi un’idea in merito io ho trovato un articolo piuttosto dettagliato nel quale mi ritrovo quasi integralmente e quindi ho deciso di postarlo sulle pagine del mio blog. L’originale lo trovate a cliccando QUI
SOMMARIO: 1. La genesi del progetto di riforma costituzionale denominato Renzi-Boschi. – I. Quanto al metodo: 2. Il Governo non deve proporre né sostenere disegni di legge di revisione della Costituzione. – 3. Le attuali Camere non sono legittimate alla revisione costituzionale. – 4. Il quesito referendario viola la libertà e l’eguaglianza del voto. – II. Quanto al merito: 5. L’elezione indiretta dei senatori viola il principio di sovranità popolare. – 6. I nuovi senatori non rappresentano nessuno, forse solo sé stessi. – 7. Non è un «Senato delle Regioni» ma un «Senato della partitocrazia». – 8. Il nuovo Senato non sarà nemmeno in grado di funzionare. – 9. Le Regioni ordinarie vengono punite per colpe che non hanno. – 10. L’equilibrio complessivo dei rapporti tra Stato e Regioni ordinarie è irrimediabilmente compromesso. – 11. Le Regioni ordinarie vengono discriminate rispetto alle Regioni speciali. – 12. La forma di governo subisce una torsione verticistica e “monocratica”. – 13. Il procedimento legislativo è inutilmente complicato. – 14. L’ampliamento degli istituti di democrazia diretta è solo apparente. – 15. Le garanzie costituzionali sono subdolamente compromesse. – 16. Un giudizio di sintesi.
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- La genesi del progetto di riforma costituzionale denominato Renzi-Boschi
Il progetto di riforma costituzionale – intitolato «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione» – è di iniziativa governativa[1], benché il testo definitivo, ora sottoposto al voto degli Italiani, sia in parte diverso[2].
Il progetto di riforma denominato Renzi-Boschi è stato approvato, nella seconda votazione, con la maggioranza assoluta da entrambe le Camere[3].
Essendo stato votato dalle due Camere con la sola maggioranza assoluta, ai sensi dell’art. 138 Cost., il progetto di riforma costituzionale è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale[4], per consentire ai soggetti a ciò legittimati dall’art. 138 Cost. di richiedere il referendum popolare entro tre mesi dalla pubblicazione. Infatti, non si fa luogo a referendum solo se la legge costituzionale è stata approvata, nella seconda votazione, da ciascuna delle due Camere, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.
Due categorie di soggetti legittimati (un quinto dei membri di una Camera[5] e cinquecentomila elettori[6]) hanno presentato le firme per chiedere la consultazione popolare, disciplinata dalla legge 25 maggio 1970, n. 352, e convocata, con d.P.R. del 27 settembre 2016, per il giorno di domenica 4 dicembre 2016.
Il quesito referendario chiederà agli elettori se vogliono approvare il progetto di riforma costituzionale. E solo se la maggioranza dei votanti si esprimerà per il “sì”, il progetto diventerà legge costituzionale. E si ricordi, in proposito, che per il referendum costituzionale non è richiesto il quorum “costitutivo” ai fini della validità della deliberazione, invece previsto dall’art. 75 Cost. per il solo referendum abrogativo. Il che vuol dire che non partecipare al voto consentirà agli altri di decidere per tutti!
Parlare in termini tecnici di riforma costituzionale è una operazione molto complicata, perché la “dimensione politica” del fenomeno tende ad esplodere. Lo ha detto anche Gustavo Zagrebelsky[7]: la ragione del dibattito non riguarda né l’estetica (su cui qualcosa ci sarebbe anche da dire) né solo l’ingegneria costituzionale, perché nessuna questione costituzionale è mai solo tecnica, ma è sempre anche politica. Del resto, la Costituzione non è né di destra né di sinistra, la Costituzione è di noi tutti, la Costituzione è le nostre radici, la nostra storia, il nostro presente e il nostro futuro.
Tuttavia, vi sono motivi politici e argomenti tecnico-giuridici. Il discrimine non è sempre facile da comprendere; ma sussiste ed esige, altresì, non solo che i motivi politici non prendano il sopravvento sugli argomenti giuridici, ma anche che gli argomenti giuridici non siano scambiati per motivi politici. E sarà, evidentemente, l’onestà intellettuale di chi scrive e di chi legge a tracciare la linea di confine.
Così, le nostre ragioni tecniche del “no” al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre si articolano in argomenti non solo di metodo (sulla procedura costituzionale e referendaria), ma anche di merito (sui contenuti del progetto di riforma).
- QUANTO AL METODO
- Il Governo non deve proporre né sostenere disegni di legge di revisione della Costituzione
Una prima ragione del “no” si deve al fatto che è inopportuno che il Governo proponga e sostenga disegni di legge di revisione della Costituzione[8].
Le ragioni sono due e non sono meramente formali, ma attingono alla essenza stessa della libertà del voto e, quindi, della democrazia:
1) i parlamentari legati dal rapporto di fiducia col Governo sono indotti, se non anche “costretti” (in senso politico), ad appoggiare le iniziative governative, anche quando in cuor loro non le condividano;
2) il successivo sostegno governativo all’approvazione referendaria del progetto di riforma altera il confronto tra le parti sociali: i ministri di questo Governo, infatti, hanno preso parte al dibattito, sostenendo pubblicamente il “sì” e compromettendo il libero e informato svolgimento della campagna referendaria[9].
Valgano, per tutti, le parole dell’illustre Piero Calamandrei[10], che già nel 1947 ci ammoniva sulle ragioni della estraneità del Governo alla formazione della Costituzione, affinché la stessa scaturisse interamente dalla libera determinazione del potere legislativo: «nella preparazione della Costituzione il governo non ha alcuna ingerenza: il governo può esercitare per delega il potere legislativo ordinario, ma, nel campo del potere costituente, non può avere alcuna iniziativa neanche preparatoria. Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana».
- Le attuali Camere non sono legittimate alla revisione costituzionale
Le Camere che hanno approvato il progetto di riforma Renzi-Boschi sono state elette grazie al Porcellum[11], dichiarato incostituzionale[12] proprio a causa dell’attribuzione del premio di maggioranza e della modalità di espressione del voto che non consentiva all’elettore di esprimere una preferenza in favore dei singoli candidati.
Ed è, quindi, solo grazie alla «falsificazione delle maggioranze»[13] prodotta dal Porcellum che queste Camere hanno potuto approvare (appunto, con la sola maggioranza assoluta, coincidente con il premio di maggioranza dichiarato incostituzionale) il progetto di riforma Renzi-Boschi.
Insomma, senza il Porcellum, non ci sarebbero stati né i numeri né i parlamentari disposti ad approvare il progetto di riforma Renzi-Boschi.
Ma in ogni caso, anche a voler ammettere, sia pure per un momento, che l’illegittimità del Porcellum non abbia compromesso in senso tecnico-giuridico la legittimazione delle Camere, appare comunque inopportuno che proprio queste Camere – prive di autentica rappresentatività – si siano cimentate addirittura in un progetto di revisione della Costituzione; proprio quando, cioè, si vuole la più ampia e piena rappresentatività politica.
E quel che è peggio è che l’enorme deficit di democraticità delle Camere non può essere colmato nemmeno attraverso la consultazione referendaria, perché anche il quesito referendario è palesemente viziato.
- Il quesito referendario viola la libertà e l’eguaglianza del voto
Il quesito referendario, emanato con d.P.R. 27 settembre 2016, è questo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».
Il quesito così formulato è manifestamente illegittimo, perché redatto in violazione dell’art. 16 della legge 25 maggio 1970, n. 352, che dispone una diversa formula quando il quesito referendario abbia ad oggetto un progetto di revisione della Costituzione. E non c’è dubbio che il progetto Renzi-Boschi sia di revisione della Costituzione[14].
Ecco la formula del quesito, secondo l’art. 16 della legge 25 maggio 1970, n. 352, quando il progetto è di revisione della Costituzione: «Il quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente: “Approvate il testo della legge di revisione dell’articolo … (o degli articoli … ) della Costituzione, concernente … (o concernenti …), approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero ……… del ……………?”».
Come si vede, una formula affatto diversa da quella utilizzata nella scheda elettorale. E, la differenza – è innegabile – non è meramente formale.
Infatti, il quesito referendario, “sbagliando” formula, richiama la reboante intitolazione del progetto, a sua volta redatta in violazione dell’art. 3 della legge n. 352 del 1970, secondo il quale, invece, «il Ministro per la grazia e la giustizia deve provvedere alla immediata pubblicazione della legge nella Gazzetta Ufficiale con il titolo “Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera”, completato dalla data della sua approvazione finale da parte delle Camere»[15].
Siamo seri! È evidente che il titolo della legge e il quesito referendario assumono toni volutamente propagandistici e suggestivi, alterando la libertà di voto: a chiunque verrebbe fatto di votare “sì” solo per come è posta la domanda; ma, con ciò, si è venuti meno al dovere di lealtà verso i cittadini elettori[16].
Inoltre, il titolo del progetto di riforma e il quesito referendario non sono nemmeno veritieri: essi vantano non solo di comportare la «riduzione del numero dei parlamentari» e «la soppressione del Cnel», ma altresì di realizzare un generale «contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni».
Ma in cosa consiste questo slogan – per dirlo con le sagge parole di Luigi Ferrajoli – «penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica»[17]? Se esso consiste nella «riduzione del numero dei parlamentari» e nella «soppressione del Cnel», è già stato detto. Se si riferisce alla ulteriore (definitiva) abolizione delle province, bastava aggiungere, dopo «soppressione del Cnel», «… e delle province»[18].
Insomma, è evidente come il titolo della legge e del quesito referendario siano volutamente propagandistici e suggestivi, allo scopo di condizionare il voto dei cittadini elettori.
Infine, il titolo del progetto di riforma e del quesito referendario sono formulati in modo incompleto, perché selezionano alcuni argomenti (evidentemente, quelli ritenuti politicamente più suggestivi), e ne escludono altri.
La lista completa degli argomenti oggetto del progetto di riforma Renzi-Boschi è la seguente[19]:
- Modifica della composizione, della elezione e delle funzioni del Senato (artt. 1-5, 7-9, 17-20, 25-26 del progetto);
- Rapporti fra Governo, maggioranza parlamentare e opposizioni (art. 6 del progetto);
- Procedimento legislativo e decretazione d’urgenza (artt. 10-12, 14 e 16 del progetto);
- Iniziativa legislativa popolare, referendum abrogativo e altre forme di referendum e di consultazione (artt. 11, lettere b e c, e 15 del progetto);
- Elezione e funzioni del Presidente della Repubblica (artt. 21-24 del progetto);
- Princìpi sulla pubblica amministrazione (art. 27 del progetto);
- Soppressione del CNEL (art. 28 del progetto);
- Abolizione delle Province (art. 29 del progetto);
- Modifiche in tema di rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali (artt. 30-36 del progetto);
- Elezione dei giudici della Corte costituzionale e controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali (artt. 13 e 37 del progetto);
- Numerose altre disposizioni finali e transitorie (artt. 38-41 del progetto), dal contenuto vario e non sempre pienamente intellegibile.
- QUANTO AL MERITO
- L’elezione indiretta dei senatori viola il principio di sovranità popolare
Secondo il progetto di riforma (novello art. 57 Cost.), i nuovi senatori sono eletti non direttamente dai cittadini, ma dai Consigli regionali e delle due province autonome di Trento e di Bolzano fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Inoltre, una disposizione transitoria del progetto di riforma (l’art. 39), prevede, come modalità di elezione, le odiose liste “bloccate”, che non consentono di esprimere preferenze in favore dei singoli candidati. Quindi, proprio una delle ragioni – non si dimentichi – della incostituzionalità del Porcellum, secondo la Corte Costituzionale[20].
Questa modalità di elezione dei senatori viola il principio della sovranità popolare[21]: è di palmare evidenza.
L’elezione indiretta dei senatori, infatti, è in contraddizione con le funzioni legislative e costituzionali del Senato, le quali invece richiedono diretta rappresentatività democratica[22].
La parola chiave è il nesso tra legittimazione e funzioni.
La Corte Costituzionale ha chiarito che non solo la funzione di indirizzo e controllo del governo[23], ma anche la funzione costituzionale richiedono necessariamente una piena rappresentatività dell’assemblea parlamentare[24].
È vero che la soluzione di una seconda camera eletta indirettamente vanta due precedenti importanti, quello austriaco tuttora vigente e quello statunitense prima della riforma del 1913[25]. Tuttavia, si tratta di precedenti l’uno superato (peraltro, in ragione della tendenza alla nomina dei senatori da parte delle dirigenze politiche) e l’altro, quello austriaco (al quale la riforma in commento si è ampiamente ispirata), considerato un «elemento di debolezza strutturale del federalismo austriaco»[26].
In conclusione, per quanto i promotori del “sì” reclamizzino la riforma negando che essa comprima i princìpi fondamentali della nostra Costituzione (all’evidente scopo di stemperare l’interesse degli elettori, auspicando una ampia astensione dal voto che favorisca i sostenitori meno attenti), nella realtà, non solo il progetto di riforma incide sui princìpi fondamentali, ma addirittura sul supremo principio della sovranità popolare, espropriando i cittadini del diritto di voto dei propri rappresentanti in Senato[27].
- I nuovi senatori non rappresentano nessuno, forse solo sé stessi
Il progetto di riforma, da un lato, assegna ai senatori la rappresentanza delle istituzioni territoriali (novello art. 57, comma 1, Cost.), ma, dall’altro, ribadisce il divieto di mandato imperativo (novello art. 67, comma 1, Cost.).
Dunque, i nuovi senatori saranno non solo privi di adeguata rappresentatività democratica, in ragione del metodo di elezione indiretto, ma anche dotati di un “libero mandato” incoerente col modello di Senato predicato dal progetto di riforma. La persistenza del divieto di mandato imperativo in favore dei senatori è destinata a creare un «corto circuito»[28], rendendo i senatori liberi di agire, anche in contrasto con gli interessi delle realtà territoriali dalle quali provengono e che dovrebbero rappresentare. Infatti, anche il Bundesrat tedesco non è elettivo, ma proprio perché non elettivo, essendo composto di membri provenienti dagli esecutivi dei Länder, i suoi “senatori” sono legati da un vincolo di mandato col Land che rappresentano.
In breve, i nuovi senatori del progetto Renzi-Boschi non saranno rappresentativi né del popolo, non essendo eletti direttamente, né delle «istituzioni territoriali» (come evocato dal novello art. 57, comma 1, Cost.) dalle quali provengono, essendo liberi nel loro mandato (e, peraltro, dotati anche delle immunità parlamentari dettate dall’art. 68 Cost.).
Diciamoci la verità, i nuovi senatori saranno rappresentativi solo delle dirigenze dei partiti politici[29] o, al più, di sé stessi.
- Non è un «Senato delle Regioni» ma un «Senato della partitocrazia»
I promotori del “sì” parlano con abile insistenza di un “Senato delle Regioni”, perché l’argomento è politically correct, suggestivo e, in un certo senso, anche digestivo.
Ma è vero? Leggiamo il testo del progetto Renzi-Boschi e le modifiche che ha subito lungo il percorso parlamentare; dati alla mano, come si conviene a un giurista[30].
Il testo del progetto governativo (S. 1429) prevedeva: all’art. 55, comma 1, Cost.: «Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato delle Autonomie». Il testo definitivo, invece, è identico all’attuale: «Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica».
Quindi il cambio del nome è stato respinto.
Ancora. L’art. 57 del progetto governativo (S. 1429) prevedeva: «Il Senato delle Autonomie è composto dai Presidenti delle Giunte regionali, dai Presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano, dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma, nonché, per ciascuna Regione, da due membri eletti, con voto limitato, dal Consiglio regionale tra i propri componenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione».
Confrontando il testo iniziale col testo definitivo del progetto di riforma si coglie come il nuovo Senato abbia cambiato fisionomia lungo il percorso parlamentare: se il nome «Senato delle Autonomie» non compare più nel testo definitivo del progetto di riforma, se si è tornati al nome originario, ci sarà pure un motivo. E il motivo è che anche il nuovo Senato non rappresenta né le Regioni né i Comuni. E non rappresenterà più nemmeno i cittadini, non essendo più eletto dal popolo sovrano.
Il vero nome del Senato che esce dal progetto di riforma dovrebbe, piuttosto, essere: “Senato della partitocrazia”!
Si è detto, per contro, che i sindaci e i consiglieri regionali sono già stati eletti dal popolo, sicché il nuovo Senato non sarebbe composto di “nominati dai partiti”. Questa risposta non regge alla prova dei fatti, perché la scelta di quale consigliere e di quale sindaco nominare senatore sarà, questa sì, una mera decisione di partito. In breve, il consigliere e il sindaco è eletto dal popolo; il senatore, invece, è scelto dal partito.
- Il nuovo Senato non sarà nemmeno in grado di funzionare
I nuovi senatori, nella loro duplice veste di membri del Senato e delle istituzioni territoriali da cui provengono e di cui continueranno ad essere componenti, non saranno in grado di poter assolvere contemporaneamente ad entrambe le funzioni, anche in ragione delle numerose competenze assegnate al Senato. Infatti, lo stesso progetto di riforma (novello art. 63, comma 2, Cost) ammette questa contraddizione, quando afferma una incompatibilità tra le funzioni di governo locale (quindi, almeno, tutti e 21 i sindaci-senatori) e le cariche negli organi del senato.
Si è detto, per contro, che il nuovo Senato non sia un organo permanente, ma destinato a lavorare per sessioni. Sicché si avrebbero sessioni in cui i membri potranno continuare a lavorare presso gli organi territoriali e sessioni in cui i membri lavoreranno in Senato.
Quale sia la fonte normativa di questa affermazione non è dato saperlo. Ma è certo che sia una mera boutade, per questi motivi.
Innanzitutto, le competenze del nuovo Senato sono tante e tali da non consentirgli di non lavorare in modo permanente: si legga il novello art. 55, comma 5, Cost.: «Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».
Sono funzioni queste che si possano svolgere part-time? parrebbe proprio di no!
Inoltre, le funzioni del nuovo Senato richiedono tempestività: si pensi alla funzione legislativa, e non solo a quella bicamerale, ma anche a quella monocamerale in cui il Senato ha a disposizione tempi brevissimi (v., infra, par. 13) per proporre modifiche alla legge approvata dalla Camera dei deputati.
Insomma, i promotori del “sì” non si rendono conto né dell’impegno che comportano tali attività né dei mezzi che tali funzioni (estesissime se seriamente considerate) necessitano. Tra l’altro, per tali attività lo staff attuale del Senato non sarà nemmeno sufficiente e si renderà necessario un significativo aumento dell’organico, con buona pace anche del conclamato e demagogico contenimento dei costi della politica.
Infine, lascia perplessi che qualcuno possa ritenere che un senatore-sindaco possa governare il suo Comune a singhiozzo. Sicché, paradossalmente, eleggibili a Senatori saranno solo i sindaci dei Comuni minuscoli; insomma, dove il sindaco è stato eletto da poche anime. Le città, invece, non potranno certo fare a meno del proprio sindaco.
Valga l’insegnamento della Francia, dove il cumulo delle cariche è – per così dire – una tradizione: lì vi si sta portando rimedio, con recenti leggi che vietano il cumulo di funzioni esecutive locali con quella di parlamentare [31]. Sicché, è anomalo, se non anche imbarazzante, che, mentre questa pratica viene abbandonata dagli ordinamenti in cui essa è storicamente radicata, la si vorrebbe ora introdurre da noi.
- Le Regioni ordinarie vengono punite per colpe che non hanno
Il progetto di riforma riscrive l’art. 117 Cost. (che distribuisce le competenze legislative e regolamentari tra Stato e Regioni ordinarie), eliminando la competenza concorrente (per la quale allo Stato spetta solo la disciplina di principio e alle Regioni quella di dettaglio) e rideterminando la lista delle competenze regionali, spostando molte materie alla competenza dello Stato.
Il progetto di riforma assesta un giro di vite alle Regioni ordinarie, riducendone le competenze normative (e amministrative).
Non si nega che fosse opportuno rettificare alcune soluzioni contenute nell’art. 117 Cost. e, in particolare, riportare al livello nazionale le infrastrutture strategiche (porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto, distribuzione nazionale dell’energia); ma la riforma va ben oltre, togliendo alle Regioni ordinarie anche altre materie «che costituivano il “cuore” dell’autonomia legislativa ed amministrativa regionale»[32].
La soppressione della competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni è predicata dai proponenti con la falsa motivazione che questo tipo di potestà legislativa sarebbe stata all’origine dell’anomala conflittualità fra Stato e Regioni; omettendosi, però, di precisare che è lo Stato ad esser venuto meno al suo compito di adottare le opportune “leggi-quadro” (o “leggi-cornice”), su cui le Regioni avrebbero potuto-dovuto legiferare, appunto, nel dettaglio; che, dunque, la conflittualità è causata da una sistematica omissione dello Stato e non da un comportamento imputabile alle Regioni[33].
Insomma, solo chi fosse favorevole ad un ridimensionamento dell’ente regionale «rispetto all’ubriacatura “federalista”»[34] e non disdegnasse un modello di Regione come ente essenzialmente amministrativo, e solo marginalmente legislativo, potrebbe guardare con favore a questa parte del progetto di riforma.
Ma il progetto di riforma non si ferma qui.
In alcuni casi ripartisce in modo ambiguo le materie: ad esempio, se «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici» è assegnata allo Stato, la «promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici» è assegnata alle Regioni, causando prevedibili contenziosi, davanti alla Corte Costituzionale, per definire l’incerto confine tra “valorizzazione” e “promozione”. Quanto alla delicata materia della salute, la riforma assegna allo Stato le «disposizioni generali e comuni per la tutela della salute» e alle Regioni la competenza in materia di «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali», alimentando il rischio di discriminazioni sul territorio nazionale nel godimento “di fatto” del diritto alla salute. Qualcuno forse si illude ancora che la «organizzazione dei servizi» non incida sul godimento della relativa prestazione?
- L’equilibrio complessivo dei rapporti tra Stato e Regioni ordinarie è irrimediabilmente compromesso
Alla sottrazione di competenze regionali non ha corrisposto una doverosa assegnazione di funzioni di riequilibrio al nuovo Senato.
Il nuovo Senato è bensì investito di molteplici competenze legislative, ma non di quelle relative alla specificazione dei confini fra le materie statali e regionali né di quelle relative agli interessi territoriali, con ciò smentendosi l’assunto che la diminuzione di poteri delle Regioni sarebbe compensata dalla previsione di un nuovo Senato “delle Regioni”. Tanto è vero che – come abbiamo già visto – il nome «Senato delle Autonomie» non compare più nel testo definitivo del progetto di riforma, e continuerà a chiamarsi Senato della Repubblica, proprio perché anche il nuovo Senato non rappresenta né le Regioni né i Comuni (e, come s’è già visto, neppure più i cittadini, non essendo più eletto dal popolo).
Infine, l’introduzione della “clausola di supremazia” consentirà allo Stato, su iniziativa del Governo[35], e senza alcun limite, di sopraffare le Regioni anche nelle materie di loro competenza «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (novello art. 117, comma 4, Cost.). Una clausola analoga (c.d. clausola dell’unità) esiste, per la verità, anche in altri ordinamenti federali (come quello tedesco), dove pure è usata, ma con moderazione; ma il progetto di riforma amplifica la clausola fino a comprendere la «tutela dell’interesse nazionale», che potrebbe giungere a svuotare completamente la competenza legislativa regionale, data l’assoluta genericità della formula usata, peraltro rimessa al mero apprezzamento del Governo (per questo motivo la clausola è stata definita “vampiro”).
- Le Regioni ordinarie vengono discriminate rispetto alle Regioni speciali
Del tutto irragionevole si mostra anche la scelta di mantenere e, anzi, di aumentare il divario tra Regioni ordinarie e Regioni speciali; enti, queste ultime, che non solo conservano la pienezza dei loro “privilegi”, ma potranno anche “trattare”, sulla base di intese con lo Stato, la propria specialità in sede di revisione dei propri Statuti[36].
Dunque, le Regioni speciali possono trattare sui propri privilegi, mentre le Regioni ordinarie subiscono una imposizione dall’alto.
Sintomatica di questa disparità di trattamento è, anche, l’introduzione di limiti di spesa per le sole Regioni ordinarie: si chiede, bensì giustamente, virtù nella gestione del denaro pubblico, attraverso l’applicazione di indicatori dei costi standard (novello art. 119, comma 4, Cost.), ma analoga richiesta non è rivolta alle Regioni speciali (v. art. 39 comma 13 della riforma), una delle quali nota, tra l’altro, per inefficienza, sprechi.
- La forma di governo subisce una torsione verticistica e “monocratica”
Questo aspetto, per poter essere pienamente compreso, richiede che il progetto di riforma sia valutato nel suo complesso e contestualizzato rispetto alla situazione politica delineata dalla vigente legge elettorale. Solo inserendo l’atto normativo nel complesso ordinamentale, secondo un convenzionale percorso logico-giuridico, è possibile comprenderne la ratio legis.
E, così, gli “ingredienti” forniti dal progetto di riforma, possono, a tal fine, essere così elencati:
1) riduce le funzioni politiche del Senato e lo priva di legittimazione democratica, prevedendo l’elezione indiretta dei suoi membri;
2) riduce le funzioni politiche delle Regioni ordinarie, trasferendo allo Stato molte competenze;
3) rafforza il ruolo del Governo nei confronti delle Regioni ordinarie, anche attraverso la «clausola di supremazia»[37];
4) rafforza i canali di approvazione dei disegni di legge di iniziativa governativa, prevedendo “corsie preferenziali” nei lavori parlamentari in favore dei progetti di iniziativa governativa e, soprattutto, la previsione di una “data certa” (settanta giorni, di regola) per la deliberazione camerale;
5) concentra le funzioni politiche nella Camera dei deputati, a cui solo conferisce la funzione di accordare e revocare la fiducia[38].
Al contempo, la legge elettorale vigente per la Camera dei deputati (legge 6 maggio 2015, n. 52, nota come Italicum), peraltro già sospetta di illegittimità costituzionale[39]:
– pone una soglia “di sbarramento” ai partiti al 3%;
– concede un generoso “premio di maggioranza” (340 seggi) al partito di minoranza che consegue il maggior numero di voti, consentendogli così di governare il Paese.
Appare allora evidente come l’azione congiunta del progetto di riforma Renzi-Boschi e dell’Italicum, pur non incidendo espressamente sulle disposizioni che regolano la forma di governo, determini una silente svolta verticistica[40] verso un modello di governo monocratico: capace, cioè, di trasformare il voto al partito di “maggioranza relativa”[41] in una investitura quasi diretta del suo leader a Capo del governo; il tutto, però, in totale mancanza di una espressa formulazione in tal senso e di idonei contrappesi.
Il progetto di riforma, piuttosto, avrebbe potuto prevedere l’introduzione di meccanismi collaudati ed equilibrati di razionalizzazione della forma di governo parlamentare (come, ad esempio, la sfiducia costruttiva alla tedesca), invece di avventurarsi in soluzioni scivolose, perché del tutto prive di adeguata sperimentazione.
Ma, soprattutto, perché il titolo del progetto Renzi-Boschi, il quesito referendario e i promotori del “sì” nascondono agli elettori questo effetto del progetto di riforma?
- Il procedimento legislativo è inutilmente complicato
Il progetto di riforma prevede quattro moduli principali per la formazione delle leggi dello Stato:
1) il “modulo bicamerale” (comma 1), come quello attualmente vigente, secondo cui le leggi sono approvate da entrambe le Camere in identico testo, è ridotto a poche ma importanti materie-funzioni, come quella di approvazione delle leggi costituzionali.
Tutte le altre leggi sono “monocamerali”, perché approvate dalla sola Camera dei deputati (comma 2), ma il Senato può intervenire secondo differenti procedure:
2) innanzitutto, vi è il modulo monocamerale “ordinario” (comma 3), secondo cui le leggi sono approvate dalla sola Camera dei deputati, ma il Senato – se, entro dieci giorni, un terzo dei suoi membri ne richieda l’esame – può deliberare proposte di modifica, entro trenta giorni, che la Camera può respingere a maggioranza semplice.
Vi sono, poi, due moduli monocamerali “speciali”:
3) il modulo monocamerale ex comma 4, per l’approvazione delle leggi di esercizio della “clausola di supremazia”, per le quali le proposte di modifica del Senato, approvate nel termine di dieci giorni[42] a maggioranza assoluta, possono essere superate dalla Camera a maggioranza assoluta;
4) e il modulo monocamerale ex comma 5, per l’approvazione delle leggi di bilancio, in virtù del quale le proposte di modifica possono essere deliberate dal Senato entro quindici giorni.
Altri procedimenti speciali, non esposti nel novello art. 70, si ricavano da altre disposizioni del progetto di riforma:
5) monocamerale abbreviato “a data certa” (novello art. 72 comma 7);
6) conversione di decreti legge (novello comma 6 art. 77);
7) procedimento speciale per approvare leggi elettorali di Camera e Senato (novello comma 2 art. 73);
8) procedimento monocamerale su iniziativa del Senato (novello comma 2 art. 71).
Ma, il progetto di riforma è consapevole della inutile complicazione creata e allora ha previsto nel novello comma 6 dell’art. 70[43], di demandare ai Presidenti delle due Camere il potere di decidere d’intesa tra loro sulle eventuali questioni di competenza.
Ma il rimedio è palesemente inadeguato, perché, a tacer d’altro, un potere decisionale conferito a un “collegio” composto di due persone è un insulto al buon senso: in caso di persistenza del disaccordo, non c’è soluzione!
Inoltre, come può notarsi anche solo dalla mera lettura del novello art. 70, il bicameralismo non è affatto “superato”, come pubblicizzato dal titolo del progetto e dal quesito referendario, ma solo inutilmente complicato: non solo restano alcune materie bicamerali, ma in tutte le altre il Senato potrà intervenire, benché in tempi ristretti, proponendo modifiche che la Camera dei deputati potrà agevolmente superare. In breve, la “terribile” navette non è scongiurata; piuttosto, il procedimento è diversamente modulato, secondo procedure complesse, confuse, prive di un reale scopo e di una qualche utilità.
- L’ampliamento degli istituti di democrazia diretta è solo apparente
Il progetto di riforma innalza da 50.000 a 150.000 il numero delle firme necessarie all’iniziativa legislativa popolare (novello art. 71, comma 3, Cost.) rendendone, dunque, più difficile l’esercizio, ma omette di prevedere un termine certo entro cui la Camera è tenuta a pronunciarsi sul progetto di iniziativa popolare, non essendo a ciò sufficiente il mero rinvio ai regolamenti parlamentari.
Il rinvio ai regolamenti parlamentari è un nonsense: è noto, infatti, come siano state le Camere ad ignorare sistematicamente le iniziative popolari; sicché, demandare ai regolamenti delle Camere di disciplinarne tempi, forme e limiti è un mero gioco di parole. Quel che resta di certo, alla fine, è solo l’innalzamento del numero delle firme.
Sintomatico del rapporto problematico intrattenuto dal progetto di riforma con gli istituti di democrazia diretta è la diversa disciplina dei tempi di deliberazione finale sulle proposte di legge qualora il proponente sia, da un lato, il Governo o il Senato e, dall’altro, il popolo. Se, infatti, il proponente è il Governo, nella procedura “a data certa”, il termine è di settanta giorni prorogabili a ottantacinque (novello art. 72, comma 7, Cost.); se il proponente è il Senato, il termine è di sei mesi (novello art. 71, comma 2, Cost.); se, invece, il proponente è il popolo non c’è alcun termine (novello art. 71, comma 2, Cost.).
Il progetto di riforma dichiara di favorire la partecipazione popolare alla determinazione della politica nazionale, ma poi si limita ad accennare in trasparenza (novello art. 71, comma 4, Cost.) a referendum propositivi e di indirizzo, rinviando ad altra legge costituzionale l’effettiva introduzione e la definizione delle condizioni e, soprattutto, degli “effetti”. In altre parole, la riforma si limita a “ipotizzare” l’esistenza di nuovi referendum, dei quali, però, la successiva legge costituzionale potrà limitarne le condizioni e, soprattutto, sterilizzarne gli effetti.
- Le garanzie costituzionali sono subdolamente compromesse
Quanto alle garanzie, preoccupa il diverso procedimento di elezione dei giudici costituzionali, con l’elezione di due giudici su cinque di nomina parlamentare da parte del Senato. Infatti, l’elezione da parte del Senato (organo privo di legittimazione democratica, di composizione esigua e con novantacinque membri su cento designati dai partiti) mina l’autorevolezza del giudice e, quindi, della Corte Costituzionale. Essere eletti, come attualmente, da un Parlamento in seduta comune (di novecentoquarantacinque membri eletti dal popolo) è cosa ben diversa in termini di adeguata legittimazione ad assolvere all’alta funzione. È vero che qualcosa di analogo avviene in Germania, dove otto giudici del Tribunale costituzione federale sono eletti da un Bundesrat composto di sessantanove membri rappresentativi dei Länder, ma … copiare gli errori altrui non è mai una buona idea!
Anche la maggioranza richiesta per l’elezione, in seduta comune, del Presidente della Repubblica degrada, in ultimo, dalla attuale «maggioranza assoluta» (cioè, circa cinquecentocinque voti) ad un modestissimo «tre quinti dei votanti» (novello art. 83, comma 3): se votano in cinque, il Presidente della Repubblica verrebbe eletto con soli tre voti[44].
A comprovare, senza ombra di dubbio, l’inaccettabile degrado della maggioranza richiesta dal progetto di riforma per l’elezione del Presidente della Repubblica, basti confrontarla con la diversa disciplina di un altro organo di garanzia costituzionale – la Corte Costituzionale –, laddove, appunto, il quorum deliberativo, pur riducendosi (dopo tre scrutini) dai «due terzi» ai «tre quinti», resta pur sempre riferito ai «componenti l’assemblea»[45] e non, banalmente, ai «votanti» (che potrebbero essere quattro gatti).
L’idea stessa di computare solo i «votanti» svilisce l’importanza della funzione elettorale, come a significare che si possa non andare al voto, tanto stiamo “solo” eleggendo il Presidente della Repubblica.
- Un giudizio di sintesi
La Costituzione è il patto fondamentale che regge e dà equilibrio alla nostra convivenza sociale, politica e istituzionale. La Costituzione, dunque, non è una legge qualunque; può bensì essere modificata, ma solo quando le proposte di modifica siano necessarie ad un miglioramento delle condizioni economiche, sociali e politiche del Paese. Nessuno abbatterebbe un edificio le cui fondamenta siano ancora solide e robuste.
Il progetto di riforma, invece, si mostra inutile e inopportuno, perché non risolve alcun reale problema imputabile alla Costituzione. Anzi, attribuisce alla Costituzione difetti che essa non ha e intende introdurre modifiche che, invece di migliorarla, la peggiorano.
Una ultra decennale propaganda di disinformazione ha, infatti, trasformato l’inettitudine della classe governante, spessa avvezza più al malcostume che non al governo del Paese, in un asserito difetto, prima, della legge elettorale proporzionale, poi, della legge elettorale maggioritaria, infine, del testo stesso della Costituzione. All’indomani del «nobile rifiuto» del 26 giugno 2006, Leopoldo Elia ragionava con eleganza, a proposito dell’uso distorto del procedimento di revisione costituzionale, di «deviazione della classe politica che ha scaricato sulla Costituzione del 1947 i suoi errori e la sua incapacità culturale (di cultura costituzionale)»[46].
Questa deviazione ha così generato, prima, il Porcellum, poi, l’Italicum e, infine, l’idea di “rottamare” anche la Costituzione.
E non è nemmeno vero che questo progetto di riforma sarebbe interprete di una esigenza avvertita da oltre trent’anni. Questa è una falsità. È vero, al contrario, che ci sono già state molte riforme della nostra Costituzione[47], alcune delle quali diffusamente condivise e altre meno condivise.
«“Riforme”, del resto – scriveva Valerio Onida[48] –, è parola tanto generica quanto colma di appeal retorico e però, se applicata alla Costituzione, vuota di contenuto. Che vuol dire essere “per le riforme”? Quali riforme?». La storia costituzionale, piuttosto, ci insegna come una riforma frettolosa e poco condivisa (come il progetto di riforma Renzi-Boschi) crei solo problemi, incertezze e conflittualità.
Inoltre, il progetto di riforma non è nemmeno idoneo a raggiungere gli scopi che i proponenti dichiarano di voler realizzare.
La riduzione dei costi della politica è, innanzitutto, un concetto sbagliato. La democrazia costa tantissimo, non c’è dubbio, ma non può essere abolita solo per questo. Il progetto di riforma Renzi-Boschi, invece, confonde il costo della politica con gli sprechi e la corruzione.
Anzi, produce il risultato contrario. Infatti, da un lato, riduce le competenze legislative e amministrative di tutte le Regioni ordinarie, anche di quelle virtuose che hanno dimostrato di meritarsi l’autonomia loro concessa dalla riforma del 2001, e dall’altro lascia inalterati i privilegi delle cinque Regioni speciali (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta), nonostante che sia noto a tutti come alcune di esse costituiscano un triste esempio di inefficienza e di spreco di denaro pubblico.
Non solo. Attualmente abbiamo una Camera dei deputati composta di seicentotrenta membri e un Senato composto di trecentoquindici membri (oltre a qualche senatore a vita). Le due assemblee svolgono le stesse funzioni. Ciò vuol dire che è comprovato che una assemblea di trecentoquindici membri (il Senato, appunto) sia in grado di svolgere le stesse funzioni a cui la Camera dei deputati adempie con il doppio delle persone. Chiunque ridurrebbe della metà il numero dei membri della Camera dei deputati. Invece, questo progetto di riforma riduce il numero dei senatori e lascia inalterato il numero dei deputati. Non ha senso!
Non è nemmeno vero che il bicameralismo proposto dal progetto di riforma sia migliore di quello attuale; come non è assolutamente vero che fare più leggi e più rapidamente sia una cosa positiva. Le leggi in Italia sono troppe e di pessima qualità. Le leggi, invece, devono essere poche e chiare. Questa riforma, al contrario, rende più complesso e incerto il procedimento di formazione delle leggi e non offre alcuna garanzia proprio sulla qualità delle leggi.
Quanto alla partecipazione democratica, il progetto di riforma, da un lato, riduce la diretta democraticità del Senato, prevedendo una elezione di secondo grado dei suoi membri, ma poi non compensa adeguatamente il deficit di democraticità con una adeguata valorizzazione degli strumenti di democrazia diretta. Infatti, l’iniziativa legislativa popolare non è garantita quanto alla discussione e alla deliberazione finale, perché il progetto di riforma rinvia alla disciplina che i regolamenti parlamentari faranno, se vorranno, quando vorranno, come vorranno; quanto ai novelli referendum propositivo e di indirizzo, il progetto di riforma omette di indicare con precisione termini, condizioni ed effetti, preferendo rinviare il delicato tema ad una futura legge costituzionale.
Le garanzie costituzionali ne escono fortemente compromesse con il chiaro intendimento di intaccare la neutralità della Corte Costituzionale e del Presidente della Repubblica. Infatti, l’elezione di due giudici costituzionali, sui cinque di nomina parlamentare, è prevista ad opera di un Senato di novantacinque (su cento) membri designati dai partiti; mentre, le maggioranze richieste per l’elezione, in seduta comune, del Presidente della Repubblica degradano, in ultimo, dalla attuale «maggioranza assoluta» (cioè, circa cinquecentocinque voti) ad un modestissimo «tre quinti dei votanti»: se votano in cinque, il Presidente della Repubblica verrebbe eletto con soli tre voti.
La partecipazione del nuovo Senato al procedimento di revisione della Costituzione, inoltre, introduce un ulteriore effetto contraddittorio rispetto ai propositi dichiarati dai sostenitori della riforma Renzi-Boschi. I proponenti, e i loro epigoni, infatti, insistono con il leitmotiv che anche la Costituzione possa e, talora, debba essere revisionata, aggiornata e modernizzata, senza che ciò costituisca un “attentato” alla Costituzione.
L’argomento, s’è già detto, è in astratto condivisibile, con l’avvertimento, però, che l’idea riformista, carica di intenso appeal retorico, è una scatola vuota, se non anche un vuoto a rendere, allorquando il proposito riformista si traduca in un obbrobrio, come è, appunto, il progetto di riforma Renzi-Boschi.
E così accade che il frettoloso “riformista” giunga ad introdurre, senza nemmeno rendersene conto, elementi “conservativi” all’interno del testo della Costituzione, smentendo sé stesso.
Così è, infatti, per il procedimento legislativo e, in particolare, per quello costituzionale: il bicameralismo differenziato, che il progetto di riforma intende introdurre, con un Senato a geometria variabile (perché composto di membri che variano in conseguenza delle elezioni dei Consigli regionali), avrà come conseguenza di rendere più difficoltoso il raggiungimento di maggioranze stabili e, quindi, l’accordo delle due Camere, soprattutto, nel procedimento di approvazione della legge costituzionale e di revisione della Costituzione. Il che vuol dire, tra l’altro, che i numerosi difetti della riforma Renzi-Boschi, se approvata dagli Italiani col referendum del prossimo 4 dicembre, saranno difficilmente rettificabili in futuro.
Difendere la Costituzione non è solo un diritto politico, ma è anche un dovere civico!
(Altalex, 18 novembre 2016. Articolo di Giuseppe D’Elia, Adrián Rentería Díaz e Maria Paola Viviani)
[1] S. 1429, presentato al Senato in data 8 aprile 2014.
[2] Il testo è stato approvato con modificazioni, l’8 agosto 2014, dal Senato; poi, approvato, con modificazioni, il 10 marzo 2015, dalla Camera; quindi, approvato dal Senato, ancora con modificazioni, il 13 ottobre 2015; e, infine, approvato senza ulteriori modifiche dalla Camera l’11 gennaio 2016. Successivamente si è avuta la seconda deliberazione di entrambe le Camere a maggioranza assoluta. Confrontando il progetto governativo con il testo definitivo, si nota, tra l’altro, la profonda differenza nella composizione e nelle funzioni del Senato e nel procedimento legislativo.
[3] Dal Senato della Repubblica nella seduta del 20 gennaio 2016 e dalla Camera dei deputati nella seduta del 12 aprile 2016.
[4] Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016.
[5] Precisamente, in ciascuna della due Camere sono state presentate due richieste: Cass., Ufficio centrale per il referendum, ord. 6.5.2016.
[6] Cass., Ufficio centrale per il referendum, ord. 8.8.2016.
[7] G. ZAGREBELSKY, Riforme costituzionali. La posta in gioco, in www.libertaegiustizia.it
[8] È vero che, in passato, non sono mancate iniziative governative, approdate in leggi di revisione della Costituzione, che non hanno sollevato obiezioni, ma solo perché di contenuto decisamente “minore” rispetto alla ampiezza dell’attuale progetto di riforma e perché ampiamente condivise: così, la legge cost. 9 febbraio 1963, n. 2, di modificazione degli artt. 56, 57 e 60, con la quale si stabilì il numero fisso di deputati e senatori e si parificò la durata di Camera e Senato; la legge cost. 30 maggio 2003, n. 1, di modifica dell’art. 51, con la quale si è aggiunto un periodo sulle pari opportunità tra donne e uomini; e, infine, la legge cost. 20 aprile 2012, n. 1, di modifica degli artt. 81, 97, 117 e 119, con la quale si è introdotto il principio del pareggio di bilancio.
[9] L. CARLASSARE, Referendum, menzogna contro democrazia, in MicroMega 3/2016.
[10] P. CALAMANDREI, Come nasce la nuova Costituzione, in Il Ponte, III (1947), ora a cura di G. Azzariti in www.costituzionalismo.it
[11] Legge 21 dicembre 2005, n. 270.
[12] Corte cost., sent. 13 gennaio 2014, n. 1.
[13] G. ZAGREBELSKY, Riforme costituzionali. La posta in gioco, in www.libertaegiustizia.it
[14] Basti leggere anche solo la struttura del progetto di riforma per rendersi conto che è di revisione della Costituzione: «Capo I: Modifiche al titolo I della parte II della Costituzione. Capo II: Modifiche al titolo II della parte II della Costituzione. Capo III: Modifiche al titolo III della parte II della Costituzione. Capo IV: Modifiche al titolo V della parte II della Costituzione. Capo V: Modifiche al titolo VI della parte II della Costituzione. Capo VI: Disposizioni finali».
[15] Il reboante titolo è stato pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale (15.4.2016, n. 88), dal Ministro della Giustizia.
[16] Per un approfondimento di questo aspetto, concernente la corretta redazione del quesito referendario, quando abbia oggetto l’approvazione di una legge costituzionale, volendo G. D’ELIA, Sulla illegittima formulazione del quesito referendario di approvazione della riforma Renzi-Boschi, in www.ilcaso.it, e ID., Il “ricorso Onida” e la chiarezza del quesito referendario «avuto riguardo all’elettore medio», in www.lexitalia.it
[17] L. FERRAJOLI, Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia, in www.liber-taegiustizia.it
[18] Peraltro, le province sono soppresse solo nominalmente perché il progetto di riforma (art. 40, comma 4) “costituzionalizza” gli «enti di area vasta», organismi destinati a occupare lo stesso spazio amministrativo (in continuità con la c.d. Legge Delrio, n. 56 del 2014), e senza la possibilità per i cittadini di eleggere direttamente i relativi organi di governo.
[19] Anzi, l’ampiezza degli argomenti toccati dalla riforma è tale che, giustamente, Luigi Ferrajoli ha scritto: «Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione» (L. FERRAJOLI, Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia, in www.liber-taegiustizia.it).
L’ampiezza e l’eterogeneità del progetto di riforma e, conseguentemente, del quesito referendario, inoltre, si traducono – secondo alcuni – in una coercizione della libertà di voto (art. 48 Cost.), perché costringono l’elettore ad accettare o rifiutare il progetto di riforma in blocco, secondo la svilente formula “del tutto o nulla”!
In Svizzera, invece, solo per citare il più esemplare modello di democrazia «semidiretta», in cui è viva una profonda cultura degli strumenti di democrazia diretta, come appunto il referendum popolare, è espressamente vietato di sottoporre al voto del corpo elettorale, in sede di revisione costituzionale, quesiti non omogenei, che violano il «principio dell’unità della forma o della materia» (art. 139/3 Cost. CH).
[20] Cit. Corte cost., sent. n. 1 del 2014.
[21] Il principio della sovranità popolare è un principio supremo dell’ordinamento costituzionale e, come tale, è immodificabile anche per le leggi di revisione della Costituzione (Corte cost., sent. 29 dicembre 1988, n. 1146).
[22] E non è sufficiente a colmare il deficit l’inciso «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri» (novello art. 57 comma 5), posticciamente aggiunto dal Senato, nel tentativo di creare un qualche legame rappresentativo con gli elettori regionali. Anzi, l’inciso si mostra del tutto incoerente con l’impianto complessivo della riforma, perché i Consigli regionali e delle due province autonome o eleggono autonomamente i senatori o ratificano (ma perché?) una scelta già effettuata dagli elettori regionali. Insomma, o l’una o l’altra!
[23] Si è detto che non votando più la fiducia, il nuovo Senato possa essere non-eletto democraticamente. Ciò non è affatto obbligatorio, vero che in Spagna e in Polonia la seconda Camera non vota la fiducia ma è ugualmente elettiva.
[24] La «compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, [è] incompatibile con i princìpi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di “una caratterizzazione tipica ed infungibile” (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali» (così, Corte cost., sent. 13 gennaio 2014, n. 1).
[25] Invero, vi è anche un altro modello, quello francese, che però è affatto diverso: infatti, anche il Senato francese è eletto indirettamente, ma la Francia non è né regionalista (come l’Italia) né federalista; anzi, fino a pochi decenni fa era fortemente accentrata. Inoltre, il Senato francese è, bensì, eletto indirettamente, ma da un collegio di circa 150.000 elettori e la sua principale componente (circa 140.000 elettori) è costituita dai rappresentanti dei 36.000 Comuni francesi (che eleggono i delegati in base a sistemi elettorali diversi in base alla popolazione del Comune stesso). Questa volontà di dare forte voce ai Comuni è un omaggio ai princìpi ereditati dalla rivoluzione, per cui i Comuni sono considerati entità di base molto importanti, data la loro vicinanza alla popolazione. Insomma, una realtà affatto diversa dalla nostra attuale e dal progetto di riforma Renzi-Boschi.
[26] F. PALERMO, Il federalismo austriaco: un cantiere sempre aperto, in www.issirfa.cnr.it
[27] E di “espropriazione senza indennizzo” si può senz’altro parlare anche con riguardo ai cittadini residenti all’estero, che vedono nel progetto di riforma una secca riduzione dei parlamentari da loro eleggibili da 18 a 12.
[28] E. GIANFRANCESCO, Camere del parlamento e procedimento legislativo nel disegno di legge di revisione costituzionale del governo Renzi, in Italian Papers on Federalism, n. 3/2015
[29] Infatti, non a caso, una disposizione transitoria del progetto di riforma (l’art. 39), prevede, come modalità di elezione, un sistema proporzionale a liste “bloccate”, senza cioè la possibilità di esprimere preferenze in favore dei singoli candidati senatori.
[30] Sul sito della Camera dei deputati è disponibile il «Testo a fronte tra gli articoli della Costituzione, il disegno di legge del Governo e le modifiche apportate nel corso dell’esame parlamentare – Dossier n. 216/11 del 4 febbraio 2016».
[31] La Legge organica n. 2014-125 del 14 febbraio 2014 vieta il cumulo delle funzioni esecutive locali con il mandato di deputato o di senatore a decorrere dal 2017, anno in cui sono previsti l’elezione dell’Assemblea nazionale e il rinnovo parziale del Senato, mentre la Legge n. 2014-126 del 14 febbraio 2014, di analogo tenore, riguarda i parlamentari europei a decorrere dal 2019: vedi Note sull’A.S. n. 2258, Disposizioni in materia di conflitto di interessi, del Servizio studi, Legislatura XVII, Dossier aprile 2016 n. 311, in www.senato.it
[32] U. DE SIERVO, Appunti a proposito della brutta riforma costituzionale approvata dal parlamento, in www.rivistaaic.it
[33] Peraltro, la tanto conclamata abolizione di questa competenza legislativa concorrente è destinata a riapparire sotto l’etichetta di «disposizioni generali e comuni» (novello artt. 117 lett. m, n, o, u) o di «disposizioni di principio» (lett. p). Quindi, cambia il nome, resta la sostanza, ma aumenta la confusione.
[34] G. SCACCIA, Intervento al dibattito sulla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, in www.rivistaaic.it
[35] Anche con decreto legge: v. novello comma 6 art. 77.
[36] Vedi art. 39, comma 13, del progetto di riforma: «Le disposizioni di cui al Capo IV della presente legge
costituzionale [ndr “Modifiche al Titolo V della Parte II della Costituzione”] non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome».
[37] Secondo la clausola di supremazia, su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie regionali quando lo richieda, non solo la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ma anche una fluttuante «tutela dell’interesse nazionale» (vedi novello art. 117, comma 4, Cost.).
[38] Possono, altresì, considerarsi, in questa prospettiva, anche: 6) la più blanda maggioranza richiesta per l’elezione del Presidente della Repubblica e 7) il diverso procedimento di elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare: v., infra, par. 10.
[39] Con comunicato stampa del 19 settembre 2016, il Presidente della Corte costituzionale ha reso nota la decisione del Collegio di rinviare a nuovo ruolo la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dai Tribunali di Messina e di Torino, sulla legge n. 52 del 2015 (“Italicum”), la cui udienza era inizialmente prevista per il 4 ottobre 2016.
[40] L. CARLASSARE, Incrocio pericoloso, in www.libertaegiustizia.it
[41] L’espressione partito di “maggioranza relativa” significa, in sostanza, partito di “minoranza” che ha ricevuto anche solo un solo voto in più rispetto agli altri partiti di “minoranza”. Per essere di vera “maggioranza” il partito deve, invece, conseguire il cinquanta per cento, più uno, del totale dei voti.
[42] In realtà, non è per nulla chiaro se questo termine di dieci giorni si riferisca alla richiesta d’esame (come nel comma 3) oppure alla deliberazione delle proposte di modifica (come appare preferibile ritenere, mancando altrimenti, in questo caso, un termine finale per proporre le modifiche; salvo a ritenersi che esso sia quello di trenta giorni già dettato nel comma 3. Ma se i termini del comma 4 fossero gli stessi del comma 3, non avrebbe avuto senso ripeterne solo uno dei due: o entrambi o nessuno).
[43] Novello art. 70 comma 6: «I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti».
[44] Infatti, il “quorum costitutivo” dettato dall’art. 64, comma 3, Cost. per la validità delle deliberazioni (secondo cui: «Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti [ndr, quorum costitutivo], e se non sono adottate a maggioranza dei presenti [ndr, quorum deliberativo], salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale») è soddisfatto dalla “presenza” della maggioranza dei componenti, mentre il novello art. 83, comma 2, Cost., si occupa del “quorum deliberativo” della maggioranza speciale dei «tre quinti dei votanti». In breve, se è presente la maggioranza dei componenti, le votazioni sono valide anche con l’esempio paradossale per cui, se votano in cinque (mentre gli altri si astengono), in tre eleggono il nuovo Presidente della Repubblica.
Del resto, se il progetto di riforma avesse voluto affermare che i «votanti» non possano essere inferiori alla maggioranza dei componenti, avrebbe dovuto scrivere i «tre quinti dei “presenti”» (posto che i presenti non possono essere meno della maggioranza dei componenti).
Ma, in ogni caso, anche qualora si ritenesse implicito, perché nella logica del sistema, che il numero dei «votanti» debba essere almeno uguale alla maggioranza dei componenti, comunque il «tre quinti» della maggioranza dei componenti è un valore inferiore alla «maggioranza assoluta», che coincide, appunto, con (tutta) la maggioranza dei componenti.
[45] Vigente art. 3 della legge cost. 22 novembre 1967, n. 2: «I giudici della Corte costituzionale che nomina il Parlamento sono eletti da questo in seduta comune delle due Camere, a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea».
[46] L. ELIA, Cinquantanove anni dopo, in www.astrid-online.it
[47] Dal 1948 ad oggi sono entrate in vigore ben quindici leggi di revisione della Costituzione (9 febbraio 1963, n. 2; 27 dicembre 1963, n. 3; 22 novembre 1967, n. 2; 16 gennaio 1989, n. 1; 4 novembre 1991, n. 1; 6 marzo 1992, n. 1; 29 ottobre 1993, n. 3; 22 novembre 1999, n. 1; 23 novembre 1999, n. 2; 17 gennaio 2000, n. 1; 23 gennaio 2001, n. 1; 18 ottobre 2001, n. 3; 30 maggio 2003, n. 1; 2 ottobre 2007, n. 1; 20 aprile 2012, n. 1), quindi, con una media di una revisione costituzionale ogni 4/5 anni. Ci sembra, quindi, di poter concludere che chi parla di trent’anni di attesa sia stato molto distratto negli ultimi sessantotto anni.
[48] V. ONIDA, Il “mito” delle riforme costituzionali, in Il Mulino 2004.